La pace che non c’è: un’arte da creare
Tra i tanti convegni organizzati negli ultimi tempi sul tema della pace, quello tenutosi il 29 agosto presso il Santuario di San Matteo a San Marco in Lamis, promosso dal Rotary Distretto 2021, è stato per me diverso.
Non solo per il contesto suggestivo, ma per la profondità degli interventi che lo hanno animato. Le parole di Fra Stefano De Luca, padre guardiano del Santuario, si sono intrecciate con quelle di Monsignor Franco Moscone e del Prof. Isidoro Davide Martellaro, offrendo tre prospettive diverse, ma accomunate da un’urgenza: capire cosa significhi davvero lavorare per la pace.

È ascoltando quelle voci che ho sentito nascere in me il bisogno di dire un mio pensiero. Di interrogarmi, di condividere un frammento di riflessione su un tema che, troppo spesso, riduciamo a slogan.
C’è un paradosso che attraversa la storia umana come una lama silenziosa: possediamo archivi sterminati di guerra e quasi nulla da esibire della pace. Sappiamo raccontare le battaglie, abbiamo nomi, date, mappe, immagini e reliquie di violenza; ma della pace, come ha detto Fra Stefano De Luca, disponiamo solo dell’immaginazione.
La pace non ha testimonianze, non ha monumenti: è un’opera che si fa, non un trofeo che si conquista.
Eppure continuiamo a confonderla con la quiete, con l’assenza di rumore, con la sospensione provvisoria delle ostilità. Invece no. La pace vera non nasce dove non c’è conflitto, ma nell’attraversarlo. È un’arte, un mestiere da facitori, da artigiani ostinati. Non è un dono di natura, ma un atto contro natura: la natura conosce la legge del più forte, il pesce grande che divora il piccolo, il gatto che insegue il topo. La pace non appartiene a quell’ordine: va scolpita come il Mosè di Michelangelo, “a botte di martellate”.
Il cuore del conflitto: identità, appartenenza, simmetria
Le radici delle guerre, non stanno solo nei fatti del passato, nei confini contesi, nelle risoluzioni internazionali. Quelle sono ferite visibili, ma la malattia è più profonda: abita nelle categorie culturali che costruiamo.
Una di queste è l’identità. Quando diventa assoluta, impermeabile, esclusiva, genera competizione, paura, chiusura. L’altro non è più un volto, ma un ostacolo. Così l’idea di pace diventa perversa: essa è possibile solo se l’altro scompare.
Lo vediamo, drammaticamente, nel conflitto tra Israele e Palestina. Da decenni la Striscia di Gaza è una ferita aperta: la memoria del 1948, la guerra dei Sei Giorni, la diaspora, le risoluzioni dell’ONU — tutto sembra accumularsi come strati di polvere che soffocano ogni futuro possibile.
Eppure, più scaviamo nella storia, meno troviamo terreno per costruire pace. Perché la storia la scrivono gli sconfitti e i vincitori, ma quasi mai i pacificatori.
Oggi assistiamo a un orrore che ci interpella: genocidi negati o minimizzati, deportazioni, apartheid, pulizie etniche. Sotto la veste della “sicurezza nazionale” o della “legittima difesa”, intere generazioni vengono sacrificate, violentate dalla disumanità della violenza e dalla negazione delle differenze originarie. Gaza non è un nome lontano: è il nostro specchio. Ci riguarda perché, come è stato ricordato, “la mia carne è la carne del mondo, ciò che accade agli altri mi accade”.

La logica illogica della pace
C’è un inganno sottile che attraversa la retorica contemporanea: si giustificano le guerre in nome della giustizia, si invocano “guerre sante” o “necessarie”, eppure ogni guerra è una sconfitta. Sempre.
La pace, invece, appartiene a una logica illogica. Vince chi perde. Vince chi rinuncia alla simmetria, chi non restituisce il colpo ricevuto, chi decide di dire: “non sono in pace con te, ma sono in pace per te”.
Per questo non esistono politiche di pace. Possiamo al massimo immaginare politiche di gestione dei conflitti, ma la pace, quella vera, resta un’opera individuale e collettiva insieme, un cammino fatto di rinunce, di ascolto, di sacrificio.
Non è un salotto ovattato, né un rifugio dalla vita. È uno zaino sulle spalle, è strada, è fatica, è il sudore delle mani che lavorano la differenza senza cancellarla. È la capacità di stare “in medias res”, dentro al conflitto, senza fuggire né annientare.
Un appello: smettere di illuderci
Illudersi che la pace sia altrove, che il problema riguardi “altri” popoli, “altre” terre, è l’alibi più comodo e pericoloso. Ogni volta che scegliamo di schierarci invece di dialogare, che confondiamo appartenenza con superiorità, che cediamo al campanilismo o al particolarismo, seminiamo conflitto.
La pace comincia da un lavoro silenzioso e radicale: disinnescare dentro di noi la spontaneità della guerra, rinunciare alle ragioni che crediamo invincibili, accettare che vivere con l’altro significhi vivere con il conflitto. Non eliminarlo, ma attraversarlo.
Gaza ci insegna che non possiamo più rimandare. Non si tratta solo di condannare un attore o l’altro: si tratta di rifiutare l’idea stessa che la pace possa nascere da un’altra guerra. La pace va creata, scolpita, inventata ogni giorno.
Conclusione: Analfabeti di pace
Siamo diventati esperti di guerra, ma analfabeti di pace.
Collezioniamo mappe di confini contesi, elenchi di caduti, cronologie di massacri… eppure non sappiamo dire come si fa la pace.
Aspettiamo che siano gli altri a iniziare, che smetta prima “chi ha torto”, che si muovano i governi, che parlino i potenti. Ma la pace non arriva dall’alto: si fa dal basso, nel quotidiano, nel disinnescare le nostre piccole guerre personali.
Se continuiamo a pensare che la pace sia assenza di conflitto, non la vedremo mai. Perché la pace vera nasce dentro i conflitti, nell’accettare la differenza, nel rinunciare alla vendetta.
E allora sì, la pace è contro natura. Ma proprio per questo è l’unica forma alta di civiltà che ci resta.
Se non siamo pronti a costruirla, siamo già complici della prossima guerra.
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